IL TRIDUO PASQUALE
Innanzitutto è bene premettere che la liturgia non solo esprime nell’essenza il contenuto della nostra fede attraverso il linguaggio (in questo caso parole e segni), ma con essa «si effettua l'opera della nostra redenzione» (Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, 2). È chiara, quindi, l’importanza del linguaggio per trasmettere agli altri il messaggio della Buona notizia.
Nel tempo i cristiani hanno usato in maniera mirabile tutti i linguaggi possibili oltre la parola e i segni (architettura, scultura, pittura, esperienze religiose …) per veicolare a tutte le genti il messaggio di Gesù. Tuttavia la domanda che oggi ci poniamo è perché le parole e i segni non sono così intuitivi, perché hanno necessità di essere tradotti? Da ciò discende la domanda se la Tradizione, cui si conforma il linguaggio della Chiesa, può considerarsi ancora attuale oppure vi è la necessità di scostarsi da essa? Infine, se si cambia il linguaggio ma non la forma della fede, ed è ciò che è successo fino ad oggi per esempio con l’adozione di linguaggi diversi dal latino, si rischia di mettere un abito diverso, magari nuovo e alla moda, sullo stesso vecchio corpo. A questo punto è evidente che il linguaggio è solo una struttura funzionale al messaggio che si vuol veicolare e, poiché oggi è comprensibile solo da parte degli addetti ai lavori, ne consegue la necessità di cambiare l’approccio al mistero senza tradire l’essenza della fede.
A tal proposito si trascrive di seguito parte del Discorso ai partecipanti all’incontro promosso dal Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione (11 ottobre 2017): “La Tradizione è una realtà viva e solo una visione parziale può pensare al “deposito della fede” come qualcosa di statico. La Parola di Dio non può essere conservata in naftalina come se si trattasse di una vecchia coperta da proteggere contro i parassiti! No. La Parola di Dio è una realtà dinamica, sempre viva, che progredisce e cresce perché è tesa verso un compimento che gli uomini non possono fermare. Questa legge del progresso secondo la felice formula di san Vincenzo da Lérins: «annis consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate» (Commonitorium, 23.9: PL 50), appartiene alla peculiare condizione della verità rivelata nel suo essere trasmessa dalla Chiesa, e non significa affatto un cambiamento di dottrina.
Non si può conservare la dottrina senza farla progredire né la si può legare a una lettura rigida e immutabile, senza umiliare l’azione dello Spirito Santo. «Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri» (Eb 1,1), «non cessa di parlare con la Sposa del suo Figlio» (Dei Verbum, 8). Questa voce siamo chiamati a fare nostra con un atteggiamento di «religioso ascolto» (ibid., 1), per permettere alla nostra esistenza ecclesiale di progredire con lo stesso entusiasmo degli inizi, verso i nuovi orizzonti che il Signore intende farci raggiungere.”.
Il discorso è interessantissimo perché ribadisce che il compito della Chiesa non è solo quello di custodire ma anche di progredire affinché la verità impressa nell'annuncio del vangelo da parte di Gesù possa raggiungere la sua pienezza fino alla fine dei secoli.
Ciò premesso, cerchiamo di entrare nello spirito del Triduo pasquale.
Con i vespri del giovedì, termina il tempo di Quaresima ed ha inizio il Triduo pasquale che, a sua volta, finirà con i vespri della domenica di Pasqua. I giorni che vanno dal giovedì santo alla domenica di Pasqua sono quattro e non tre come intuitivamente ci suggerisce la parola “triduo”. Di fatto, però, le ore complessive che ne determinano la durata sono settantadue pari cioè a tre giorni di ventiquattro ore ciascuno. Ciò è dovuto al modo con cui oggi individuiamo l’inizio e la fine del giorno che non coincide con quello in uso nell’antichità ebraica. Infatti, per gli ebrei il giorno non iniziava dalla mezzanotte, ma era anticipato ai vespri (circa le attuali ore 18:00) per cui l’inizio del triduo non cadeva di giovedì, bensì di venerdì.
Il Triduo pasquale, come tempo liturgico, si colloca tra la Quaresima e il Tempo di Pasqua. Sempre per il nostro modo di computo, come sopra detto, si verifica che il giovedì santo e la domenica di Pasqua fanno parte contemporaneamente di due tempi liturgici. Il giovedì appartiene sia alla Quaresima, che termina con i vespri, sia al Triduo, mentre la domenica, terminando con i vespri, appartiene sia al triduo sia al Tempo di Pasqua.
In questi tre giorni, i più importanti della liturgia, la Chiesa ci invita a meditare sul mistero della Passione, Morte e Resurrezione di Gesù Figlio di Dio. In particolare il triduo inizia il Giovedì santo con la messa vespertina in “Cena Domini”, continua il Venerdì santo con la solenne celebrazione de “la passione del Signore” e termina con la Veglia pasquale, centro del triduo, che si tiene nella notte fra il sabato e la Domenica di Pasqua. Questi tre momenti, celebrati in tre giorni diversi, idealmente costituiscono una sola unità. Infatti, se poniamo particolare attenzione, noteremo che la messa del Giovedì santo inizia con l’invito usuale del celebrante (Nel nome del Padre…) e termina in silenzio, senza il saluto, la benedizione e il congedo, con la reposizione del SS. Sacramento e la spoliazione dell’altare, quasi ad annunciare l’azione liturgica del Venerdì. A sua volta la Passione del Signore non inizia con il segno della croce e il saluto, ma in silenzio, con la prostrazione dei ministranti davanti all’altare e termina senza saluto, con una benedizione richiesta al Padre ma non impartita dal celebrante. Infine, la Veglia pasquale inizia, sulla linea della continuità, senza il segno della croce e il saluto, ma con la liturgia della luce e chiude il triduo con il saluto, la benedizione e il congedo finali.
Giovedì santo

foglietto per la Messa
pieghevole
testi completi
messalino
Nella messa vespertina “In cena Domini”, prima celebrazione del Triduo pasquale, noi facciamo il memoriale della cena del Signore.
La Parola del Signore che si legge in questa messa è molto indicativa. Infatti, il cuore della Parola, nell’Esodo ci esorta: “Questo giorno sarà per noi un memoriale. Lo celebrerete come festa del Signore per sempre” (Es 12,1‑8.11‑14), in S. Paolo ci ricorda: “Ogni volta che celebrate questa cena, annunzierete la morte del Signore, fino al suo ritorno” (1Cor 11,23‑26) e, infine, in Giovanni, ci svela il senso della Cena: “Sono venuto non per essere servito ma per servire e dare la vita per il mondo” (Gv 13,1‑15).
Chi segue Gesù deve essere pronto a farsi pervadere dal mistero dell’amore del Padre sempre presente nella storia e la liturgia, durante il triduo pasquale, in modo particolare attraverso i segni, ci indica il cammino da percorrere per accogliere questo mistero.
La Pasqua cristiana affonda le sue radici in quella ebraica. La liberazione dell’uomo inizia proprio dalla liberazione del popolo ebraico dall’Egitto. Il passaggio del popolo ebraico dalla schiavitù alla libertà, è espresso nella storia attraverso i segni dell’agnello e delle erbe amare che ricordano l’amarezza della schiavitù in Egitto.
Il passaggio dalla Pasqua ebraica a quella cristiana avviene con l’ultima cena di Gesù: ultima celebrazione del rito ebraico, prima celebrazione del rito cristiano; ultima come ricordo della schiavitù d’Egitto, prima come promessa di liberazione dal peccato. Con la cena, di cui oggi facciamo memoriale, finisce l’antico e inizia il nuovo. I segni sono quelli del pane e del vino che rimangono sulla tavola come sempre.
In questa messa si celebra l’accettazione da parte di Gesù della sua morte come abbandono totale al Padre e, insieme, come redenzione del mondo: si offrì come chi è dato alla morte, come l’agnello pasquale ebraico. Gesù sedette a mensa con i suoi amici: l’uomo è più intimamente unito a quelli che ama nel gesto del mangiare e del bere insieme, cibo e bevanda presi come frutti di quell’unica terra che nutre tutti gli uomini. Nella cena si compie, così, l’inizio della sua passione redentrice come puro abbandono al volere del Padre. Al banchetto Gesù sta dinanzi ai suoi discepoli come chi si consacra alla morte per loro: «Prendete e mangiate ... »: lasciandosi mangiare entra, penetra nell’intimo dell’esistenza di ciascuno e vi rimane come reale presenza dell’amore del Padre; allora anche i discepoli mangiano e si sentono come Gesù mangiati per la vita, chiamati a morire per la vita; mangiano e sperimentano la comunione con Dio e con i fratelli; mangiano e sentono nascere nel cuore la vocazione a essere mangiati, come Gesù è mangiato.
La lavanda dei piedi ha, soprattutto, una portata educativa del segno del pane: come Cristo ha offerto la propria vita al Padre anche noi dobbiamo offrire la nostra vita a Cristo: lavare e baciare i piedi del fratello è come lavare e baciare i piedi di Cristo.
La liturgia termina con altri due segni: la processione e la reposizione del pane, custodito e adorato. Nella processione il Cristo, che ripercorre le strade della nostra esistenza, è segno della vicinanza assoluta di Dio nella nostra vita, mentre noi, attraverso l’amore e il servizio siamo segno dell’assoluta vicinanza di Dio all’uomo.
Infine, la nostra preghiera dinanzi all’eucarestia, cioè al pane frutto che scaturisce dalla morte del seme e, quindi, segno del cammino interiore dell’offerta, esprime l’adesione al progetto di Dio che nel Cristo diviene amore-dono-offerta.
Venerdì santo

foglietto per la Messa
pieghevole
testi completi
messalino
Il segno proposto dalla liturgia del Giovedì santo è il pane. Al termine della messa del Giovedì santo noi abbiamo portato processionalmente l’eucaristia all’altare della reposizione e siamo stati invitati a fermarci in adorazione. Il simbolo del pane è molto chiaro basta pensare come si arriva dal chicco al pane. Il chicco deve essere interrato e marcire per aprirsi in una spiga rigogliosa e biondeggiante al sole della primavera. Il chicco deve essere macinato, impastato e cotto per allietare con la sua fragranza la nostra tavola. In Giovanni il concetto è molto chiaro: “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto.” (Gv 12-24). Il triduo pasquale ci propone sempre la morte e la vita che si affrontano in un duello straordinario da cui uscirà sempre vincitore il Signore della vita che, ora, regna vivo. Dopo l’inverno prorompe sempre la primavera.
Il segno indicato, oggi, dalla liturgia è la croce, simbolo di morte e di vita. Oggi il dolore diventa celebrazione: oggi, in quella croce che noi adoreremo c’è tutto il dolore del mondo tutta la violenza che l’uomo ha sofferto da sempre e ancora subisce.
Cristo non ha risolto il problema del dolore; non è venuto per eliminarlo: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua.” (Mt 16-24), ma ha proposto di elevarlo a valore cambiandogli il significato: il dolore, sull’esempio della Sua passione, diviene il luogo del massimo amore. «La croce ‑ dirà Paolo ‑ è follia... i giudei reclamano miracoli, i greci vanno in cerca di sapienza, noi invece predichiamo Cristo crocifisso, scandalo e follia» (1Cor 1,22‑24). Cosa c'è di più pazzo di un Dio che muore per l'umanità e in che modo poi? Ma, se ci pensiamo bene, questo tipo di pazzia non è così lontano da noi. Quante volte gli innamorati si dicono: “Per te farei pazzie!”. Ora se questo è per gli uomini solo un modo di dire, per Dio è la realizzazione di un progetto: Dio è innamorato davvero dell’umanità e ha a cuore che acquisti la salvezza e, pertanto, non può fare a meno di recuperarla attraverso il patibolo della croce, pagando il prezzo di riscatto per i peccati di tutti.
Sabato santo
(Veglia pasquale)

foglietto per la Messa
pieghevole
testi completi
messalino
Il chicco di grano è stato interrato, è marcito sotto terra, ma il suo germoglio non è ancora spuntato alla luce del sole. Così anche Cristo, come il chicco di grano, è morto ed è stato sepolto insieme alle speranze dei pochi che lo seguivano e alle nostre, inevitabilmente racchiuse nella tomba sigillata da quella grossa pietra. Delusione che cresce con il lento avvicinarsi del masso all’imboccatura del sepolcro. Quando, dentro la tomba, non potrà più filtrare neppure un tenue raggio di luce, la speranza dell’uomo cederà il posto alla disperazione.
Il sabato viviamo lo stupore silenzioso e doloroso di quanto abbiamo vissuto il venerdì. Il Cristo, la Parola scesa in terra per parlare e comunicare con l’uomo, per rivelarci Dio, tace e mostra l’estrema debolezza nell’obbedienza al Padre; ma la Parola del Padre parla anche quando tace. Il sabato viviamo il silenzio nel seno della terra dove il chicco è sotterrato. Il sabato viviamo il silenzio della tomba dove il Cristo è stato sepolto; un silenzio drammatico se non fosse alimentato dalla speranza del domani, quando la morte sarà vinta. Domani dalla terra spunterà il germoglio del grano e la sua spiga, piena di promesse, biondeggerà al sole e, insieme con il Cristo, anche i tempi nuovi, usciranno dalla tomba.
Ora, però, la speranza vince lo stupore e il silenzio di disperazione si trasforma in attesa vigile. Questa speranza è alimentata dalla liturgia che con la parola e i segni ci dispone all’attesa della risurrezione, la pienezza della Pasqua, del passaggio dalla morte alla vita, dal peccato alla salvezza.
La liturgia, infatti, si svolge, attraverso il seguente percorso:
Liturgia della luce con i seguenti segni:
- il fuoco: Dio nell’antico testamento, più volte, si è manifestato nel fuoco. Il fuoco è benedetto perché sia l’immagine di Dio presente. Al fuoco è acceso il cero pasquale a immagine del Padre che genera il Figlio. Dio da Dio, luce da luce.
- Il cero pasquale: simbolo di Cristo risorto, luce che illumina il mondo e vince la notte. Sul cero è tracciata una croce e inciso l’anno corrente per proclamare Cristo il Signore dei secoli. La processione dietro il cero indica la luce di Cristo che, avanzando nel buio, rischiara per noi la notte, come la nube luminosa guidò il cammino agli ebrei.
Al termine della processione dietro il cero simbolo di Cristo risorto, è cantato il “preconio”: una splendida antica preghiera che annuncia il messaggio della risurrezione e celebra le grandi meraviglie operate da Dio in questa santa notte.
Liturgia della parola dove l’attesa nella speranza si riempie di memorie, rivive le tappe della storia del popolo eletto e celebra, in essa, gli incredibili interventi di Dio nella storia dell’uomo.
Liturgia battesimale.
Nella liturgia battesimale i simboli sono diversi. Innanzitutto la sorella acqua, “la quale è molto utile et humile et pretiosa et casta.” (Cantico delle creature – Francesco d’Assisi). Il simbolo dell’acqua è universale; è il segno della vita, lo sappiamo tutti perché conosciamo il dramma che si sta profilando all’orizzonte dell’umanità: la mancanza di acqua. Per il cristiano l’acqua significa passare dalla schiavitù alla libertà. Attraverso il battesimo noi diventiamo figli di Dio.
Gli altri simboli sono la veste bianca segno dell’uomo libero, figlio di Dio erede della vita eterna e la candela accesa che rappresenta la luce del Cristo che guida l’uomo.
Liturgia eucaristica
La Veglia santa non può terminare che con la celebrazione dell’Eucarestia che, come abbiamo visto il Giovedì santo e il Venerdì santo, esprime pienamente il significato della Pasqua. Finalmente quel chicco di grano, che abbiamo seguito nella sua parabola, è pane fragrante sulla nostra mensa.